ciclo di incontri - Dicembre 2001
Il Padre e i padri
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I travagli del "nuovi" padri

Nicola Negretti
 

A.    INTRODUZIONE

1.        Nell’attuale dramma internazionale, nel quale tutti, sgomenti e angosciati, siamo quotidianamente inseriti, c’è un aspetto che colpisce potentemente la nostra fantasia di cittadini, laici e secolarizzati. Benchè si sostenga da più parti che non si tratta di un conflitto tra l’Occidente e l’Islam, che non è in atto una guerra di religione, che non si sta determinando uno scontro tra culture, pure ascoltiamo da parte degli stessi governanti occidentali “slogans” del tipo: “Dio lo vuole”, “Dio è con noi”. Sembra che di fronte alle infuocate dichiarazioni del fondamentalismo islamico, che incita alla “guerra santa” nel nome di Allah contro i “nuovi crociati”, si rispolveri anche da parte nostra un collante ideologico, che sembrava del tutto tramontato ed è tale da permettere una netta opposizione contro il “nemico”.

E’ vero che nelle menti più avvertite una tale contrapposizione viene poi articolata con il riferimento (purtroppo astratto) a valori di democrazia e di libertà, che il terrorismo nega tragicamente non solo a noi, ma anche agli stessi musulmani. Ma resta comunque impressionante quest’allusione all’immagine divina, fatta da schieramenti che si puntano l’un contro l’altro le armi, questo chiamare in causa un “Dio”, che a questo punto e in un tale contesto, non può essere che un “Dio degli eserciti”. Viene da orizzonti lontani ed è ancora capace di sedurci questa sconvolgente invocazione, non sussurrata da un’anima pia ma urlata, questo appello a un “Dio patriarcale”, che è un concentrato di potere in grado di cementare i suoi fedeli e schierarli in battaglia “come un sol uomo”.

Come un sol uomo: “maschio” appunto. Perché la guerra è una faccenda di maschi, riguarda i maschi guerrieri, non i bambini e neppure le donne che, esibite in occidente più o meno nude o sepolte in oriente sotto il “burqa”, sono sempre in funzione dell’uomo che combatte. E’ sorprendente constatare come nelle situazioni estreme della guerra tante acquisizioni, che rendono il volto maschile più vario e più ricco, forse anche più debole ma appunto per questo più umano, passino in secondo piano, addirittura scompaiano, e torni in primo piano, quasi da una zona rimossa della psiche, l’immagine cristallizzata, mai superata, del “maschio patriarcale” o del “padre maschile”. Ma come ? è stata davvero superata questa immagine, oppure la guerra non fa altro che mettere in evidenza, dare risalto a ciò che sempre sussiste nelle pieghe della vita quotidiana ?

2.        Con questo interrogativo, con questo “incipit”, sicuramente unilaterale, me ne rendo conto, vorrei dare inizio alle mie riflessioni sul tema dell’incontro di questa sera: “I travagli dei ‘nuovi’ padri”, non senza prima aver dato uno sguardo all’intrigante titolo che è stato dato al corso, di cui l’incontro odierno è il primo: “Il Padre e i padri”.

Un titolo siffatto allude a un’epoca in cui allo sforzo dell’essere padre, sostenuto dai maschi, veniva offerto un modello forte di identificazione, un modello cui corrispondeva una certa strutturazione della società, sia sul piano politico sia sul piano religioso. Padre era il re per i suoi sudditi. Padre era Dio, il quale a sua volta era re. Un intrico indissolubile di paternità, potere e divinità contrassegnava quel modello “patriarcale”. Ora, c’è da chiedersi se e in che misura questo modello è andato in crisi. In certi contesti sociali, molto tradizionali, esso permane. Nell’occidente, tecnicizzato e secolarizzato, è andato senz’altro in crisi, almeno dal punto di vista culturale. Ma lo è anche per quanto concerne i comportamenti e la prassi del quotidiano ? Non sta proprio in questo il “travaglio dei nuovi padri”, nel non avere cioè più riferimenti ideali, soggettivi, culturali per la loro fatica di rapporto con i figli, nel doversi barcamenare tra l’assenza di modelli e la necessità del vivere ? E quali indicazioni possiamo esprimere per affrontare questo problema ?

Ho così delineato il percorso che intendo svolgere nel dialogo con voi. Vorrei partire dalla descrizione di quella che chiamerei una “crisi della paternità” nella nostra esistenza individuale e sociale. Sento questa crisi come un processo irreversibile, uno dei segni della trasformazione epocale che è in atto da tempo e che impedisce di sognare impossibili ritorni al passato. Siamo chiamati a un “cambiamento di prospettiva”. E di questo cambiamento di prospettiva desidererei tracciare alcuni elementi, che penso configurino la paternità, come altre scelte di vita, secondo la dimensione del “rischio”. Nella nostra società, così complessa e così segnata dal “possibile”, il vivere, ormai, non è più separabile dal rischio, che è nel contempo pericolo e opportunità.

 

B.     LA CRISI DELLA PATERNITA’

a. Paternità e identità maschile

3.        Luigi Zoja, psicoanalista junghiano attualmente attivo a New York, in un libro dell’anno scorso dal titolo significativo: “Il gesto di Ettore”, affronta l’evoluzione storico-culturale dell’immagine paterna e della sua crisi e sottolinea come essa non sia comprensibile se non congiuntamente con il divenire dell’identità maschile. La fisionomia del padre si è, per così dire, impiantata su una certa struttura esistenziale del maschio. Anzi, essa non è originaria, ma le è successiva, un dato più culturale che naturale. All’inizio il maschio non era padre, non rientrava nell’orizzonte della sua psiche l’occuparsi dei figli.

Partendo da elementi relativi al comportamento delle scimmie maggiori (orango, scimpanzè, bonobo, gorilla), risulta secondo Zoja che la quasi totalità delle femmine generano discendenti. “Fra i maschi, invece, la generazione si concentra nelle mani dei più forti, o per maggior precisione nei loro testicoli”. “Mentre l’esistenza delle femmine ha una giustificazione individuale – poiché di regola ognuna di esse ha figli – l’esistenza dei maschi ha senso solo come gruppo. Il gruppo è un serbatoio genetico per la prossima generazione”. Sarà la lotta tra maschi a determinare quale individuo sarà in grado di fecondare la femmina.

Date le particolari caratteristiche della maternità dei mammiferi (cioè per via interna, non tramite uova), la donna indugia per molto tempo presso i figli e ciò determina in lei un primo embrione di psicologia individuale. Al contrario, i maschi sono incessantemente alla ricerca della preda e del rapporto sessuale, ottenuto come un trofeo in battaglia. “Viene da pensare che essi siano, in un primo tempo, estranei alla fiammella di civiltà che le loro femmine hanno acceso, perché inghiottiti dal buio di una perenne smania di sesso”.

4.        E’ solo in un’epoca successiva che le cose cambiano, quando cioè il “dismorfismo sessuale” (maggiori proporzioni fisiche dei maschi rispetto alle femmine) diminuisce tra gli umani e il maschio si sente meno impegnato e interessato alla competizione con altri maschi per il possesso del maggior numero di femmine. Le energie vengono rivolte altrove e il maschio apprende la strada del ritorno, dopo le battute di caccia. Impara a ritornare dalla propria donna  e dai propri figli.

Non solo l‘inseguimento della preda era un lavoro psichico. “Lo era, ormai, anche il ritorno al punto di partenza”, non più visibile nella lontananza, ma desiderato, oltre che dal gruppo, dai singoli maschi. “Così, scoprirono il ritorno in famiglia e la nostalgia che ne è il profeta: il vuoto doloroso della compagna e dei figli, il desiderio della loro vicinanza”. La “nostalgia”, letteralmente il “dolore per il ritorno”, ha dunque strutturato la prima psicologia del padre.

Il mito di Ulisse che, dopo la guerra e nonostante il lungo vagabondare, non perde il ricordo della moglie e del figlio e ritorna alla propria casa, si radica nella primordiale psicologia che ha dato origine all’esperienza della paternità. L’identità maschile è ormai complessa. Non porta in sé soltanto la figura del maschio donatore di sperma. Veicola anche l’immagine del padre. Accanto ad Achille, l’eroe violento che vive per la gloria delle armi e non ha famiglia, compare Ettore, il quale combatte anch’egli, è vero, ma solo per salvaguardare la moglie, il caro figlioletto, la patria.

Se il maschio scopre il valore e la potenza della paternità, questo avviene, in un primo tempo, tramite un rapporto di riferimento psicologico con la fecondità femminile. “Solo essendosi trasformato in padre scopriva che la vita è cosa che viene condivisa. E, così facendo, scopriva che il suo termine di paragone era la madre. Anche da questo ebbero origine le immagini di madri feconde” nella pittura e nella scultura preistoriche. E questo fatto, più che alludere a un’improbabile epoca di matriarcato, forse sta a significare che “il femminile dominava la psiche. Per la psicologia, il maschile era relativo, il femminile assoluto. La presenza maschile sembrava contingente, quella femminile necessaria”.

b. Patriarcato e ruolo della donna

5.        Con l’insorgenza del patriarcato, il modello paterno non solo contrassegna la psicologia maschile, ma tende gradualmente a informare di sé la società, le sue istituzioni e la cultura, fino a diventare modello unico di identità. In questa maniera, il debito di riconoscenza e di scambio che la paternità deve alla donna e al suo rapporto con la vita, viene dimenticato e rimosso dalla scena pubblica. L’archetipo paterno domina incontrastato. Se la presenza femminile alimenta sempre e comunque il dialogo intimo e privato dell’uomo con la donna, tuttavia essa scompare dall’ambito della comunità. E il maschio, nel costruire la sua identità e nel modulare la propria psiche, più che ispirarsi al dialogo concreto con il femminile, si riferisce alle esigenze astratte della società. Impoverendo con ciò la sua stessa autocomprensione.

E’ interessante notare come, nella cultura del patriarcato, la centralità della figura paterna sfocia nel mito del “genitore unico”, che viene espressa in modo strabiliante nella terza parte dell’”Orestea” di Eschilo, e cioè nelle “Eumenidi”. Oreste, che è perseguitato dalle Erinni per avere ucciso la madre Clitennestra, viene difeso nell’Areopago di Atene dal dio Apollo con la singolare tesi che il vero genitore del figlio non è la madre, ma il padre. Sulla base di un’errata conoscenza della fisiologia femminile, Apollo sostiene infatti che la vita viene dallo sperma del padre, mentre la madre è soltanto nutrice (nel grembo e nella casa) della vita generata dall’uomo. Così   Oreste viene liberato dall’accusa di matricidio e le Erinni si trasformano in Eumenidi, in divinità benigne.

6.        Segno della rimozione del femminile nella sfera del privato, propria della cultura patriarcale, è anche la ruolizzazione della donna in due figure tra loro non conciliabili: da un lato la madre e dall’altro l’amante o la prostituta. Se una tale ruolizzazione della donna risponde all’esigenza di mantenere invariato l’ordine sociale attraverso la tutela della famiglia e una rigida separazione tra pubblico e privato, pure bisogna ammettere che essa riposa su un conflitto non mai risolto dell’identità maschile e che, anzi, proprio il modello patriarcale, con la subordinazione dell’identità maschile a un modello astratto, ha teso a cristallizzare.

       Dice ancora Zoja: “La nostra ricostruzione della psicologia paterna attraverso i tempi ci ha chiarito che, prima ancora di questa scissione [dell’immagine femminile], all’origine, sta un problema maschile. E’ infatti il maschio ad avere in sé due identità ben lontane dall’essere sintetizzate dall’evoluzione naturale, e neppure rese unitarie dal decorso storico e culturale: il padre e il maschio donatore di sperma. Se egli, lungo tutta la storia, ha assegnato alla donna due personalità separate – l’una disponibile all’incontro sessuale e l’altra che accudisce il figlio – lo ha fatto perché dentro di sé non è mai riuscito a unificare le due identità maschili corrispondenti. Proiettando sulla compagna il suo più antico problema, il maschio dichiara la sua incapacità di costituirsi definitivamente e unitariamente come padre “.

Non è un caso che in epoca recente, proprio di fronte alla critica che il femminismo ha svolto dei ruoli attribuiti alla donna, nel segno di una più complessa e unitaria immagine femminile, il maschio sia andato in crisi non solo nella sua funzione di padre, ma anche nella propria identità maschile. Non più tutelata dal ruolo, l’identità maschile si è trovata potentemente alle prese con il suo perenne dissidio e incontra una dura fatica, sovente dolorosa, ma oserei dire anche feconda, nel gestire un tale dissidio dentro il dialogo dell’”identità di genere”, che alcune donne e alcuni uomini stanno nuovamente tentando.

c. Il potere nella società della tecnica

7.        Ma la crisi del patriarcato e della paternità si colloca oggi in un contesto molto più ampio, all’interno del quale pure va inquadrato il diverso modo di porsi della dialettica maschile e femminile. Nella società moderna e contemporanea assistiamo a una dislocazione radicale del potere, a causa del predominio della tecnica. Nel passato il potere era saldamente nelle mani della politica, la quale definiva gli scopi dell’agire tecnico. In fondo, il patriarcato altro non era che un modello di società in cui i valori, gli scopi, l’etica governavano i rapporti sociali. Il “padre”, nelle sue diverse personificazioni, era il simbolo dell’autorità etica per eccellenza. Attualmente, però, l’incremento dell’apparato tecnico ha reso evidente come la scelta degli scopi non possa derivare se non dalla disponibilità dei mezzi e come a condizionare la politica intervenga preminentemente la razionalità tecnica.

“Ciò significa una forte riduzione del modello gerarchico, perché il comando trae la sua legittimazione non più dall’autorità, ma dall’afflusso e dall’elaborazione di informazioni e comunicazioni tecniche. La tecnica finisce con il disporre di metodi molto efficaci per controllare, se non addirittura per guidare, la politica” (Galimberti). La storia europea dalla fine del Settecento a oggi testimonia non solo l’abbattimento di troni e di aristocrazie, ma anche il crollo dell’immagine del padre tradizionale. Avendo smarrito il suo ruolo nella vita pubblica, il padre perde il suo prestigio anche nella famiglia. La narrativa dell’Ottocento e del Novecento svolge con enfasi un filone letterario che nasce da un forte disagio familiare e sociale, e propone la figura del “padre indegno”.

Ma un padre senza autorità, che padre è ? Come deve essere intesa l’autorità in una diversa immagine del padre ? E in una diversa società ? Se con la fine del patriarcato la paternità è entrata verticalmente in crisi, in che modo potrà esserle restituito valore ? Dovremo rassegnarci alla sua deriva ? Credo che sia importante dare una risposta a questi interrogativi, perché si tratta non solo di dare un sostegno al travaglio dei nuovi padri, ma soprattutto di affrontare il problema del nostro modello di vita comune.

C.    UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA

8.        Di fronte all’eclissi del patriarcato e alla crisi dei padri si possono assumere posizioni estreme, che a mio modo di vedere non leggono in maniera esaustiva questo fenomeno. Da un lato, partendo dalla scomparsa del modello paterno come principio informatore della società, c’è chi ipotizza una “società senza padre” (Mitscherlich). Dall’altro lato, in una fase più recente, vi è chi, oltre a considerare la figura del padre indispensabile al progresso umano, auspica il ritorno dell’”archetipo” paterno e maschile nei rapporti sociali (Risè).

Credo che queste due linee di soluzione sfuggano dinanzi al rischio dell’oggi e alla sfida storica che sorge dal cambiamento. Certo, occorre riconoscere che la dimensione paterna, comunque poi la si intenda, è un bene prezioso per la nostra umanità e non può essere dissolta nella sua crisi. Ma occorre, altresì, riconoscere che il patriarcato non caratterizza più la società come valore, e questo irreversibilmente. Non ha perciò senso cercare di ripristinare modelli passati, con l’illusione di far uscire il maschio dalla crisi restituendogli il vecchio potere.

Qual è il rischio dell’oggi ? E’ che non abbiamo modelli fissi, non abbiamo “archetipi” per definire non solo l’identità paterna, ma qualsiasi altra identità. Ognuno si deve sobbarcare la fatica e la “chance” di definirsi dinamicamente, e provvisoriamente, in un confronto continuo con gli altri e con la realtà. Più che affidarsi a schemi e a sostegni esterni o a modelli astorici in grado di garantirne l’identità, il maschio è chiamato a giocarsi nelle relazioni umane, elaborando la capacità di saper consistere in se stesso. E’ anche possibile che da questo travaglio nascano col tempo nuovi modelli di autocomprensione. Ma certo, se questo avverrà, non sarà più in maniera definitiva, sacrale, universale, bensì in modo fluido, laico, parziale: non più dettando norme, ma proponendo orientamenti.

D.    IL RISCHIO DELLA PATERNITA’

a.      Amore e conflitto nel rapporto con il figlio

9.        La prima relazione, con la quale un padre si trova a dover esprimere la propria identità in movimento, è ovviamente quella con i figli. A questo proposito sappiamo che il rapporto padre-figlio è stato ampiamente declinato dalla psicoanalisi nel segno del conflitto. Ma questo punto di vista rende veramente giustizia a ciò che è essenziale e originario nel rapporto padre-figlio ?

Contro il modello freudiano, che attraverso l’Edipo individua un conflitto di fondo tra padre e figlio, Kohut ravvisa una solidarietà originaria, derivante dal “fatto che l’uomo sano vive, e con la gioia più profonda, la generazione successiva come un’estensione di se stesso”. Il padre, che non si sente né onnipotente né immortale, vede naturalmente nel figlio non una minaccia, ma una speranza di vita da tutelare e da promuovere, perché serve a garantire la continuità del mondo da una generazione all’altra.

Per confermare questa posizione, che trova numerosi riscontri clinici, Kohut oppone al parricidio di Edipo il “semi-cerchio della salute mentale” di Ulisse, come può essere desunto da questo antico racconto. “Quando i Greci cominciarono a organizzarsi per la guerra contro Troia, invitarono tutti i condottieri a unirsi alla spedizione con i loro uomini, le loro navi e le loro scorte. Ma Ulisse, signore di Itaca, che era nel fiore degli anni e aveva una giovane moglie e un bambino piccolo, non era affatto entusiasta all’idea di andare in guerra. Quando i messi degli stati greci arrivarono per illustrargli la situazione e assicurarsi la sua adesione, Ulisse simulò di essere pazzo. Gli emissari – Agamennone, Menelao e Palamede – lo trovarono che lavorava la terra con un aratro al quale erano aggiogati insieme un bue e un asino, e procedeva alla semina buttando sale nei solchi: sulla testa portava un bizzarro copricapo di forma conica, come quelli usati dagli orientali. Ma Palamede sospettò l’inganno. Afferrò Telemaco, il figlioletto di Ulisse, e lo buttò proprio davanti all’aratro che avanzava. Ulisse immediatamente fece col suo aratro un semi-cerchio per evitare il bambino, e questa mossa dimostrò, senza possibilità di dubbio, la sua salute mentale, costringendolo ad ammettere di aver simulato la follia per sottrarsi alla partenza per Troia”.

10.    Mi premeva sottolineare questa fiducia primaria tra padre e figlio, perché è la base di un amore per la vita sulla quale si colloca ogni dialogo della paternità, anche quello del conflitto. Anzi, un padre ama veramente il figlio per se stesso e non rischia di imprigionarlo in una sorta di affetto possessivo, in una catena di concessioni e permessi che lo mantengono bambino, solo se è capace di “tradirlo”.

E’ misteriosa questa parentela tra la fiducia primaria e il tradimento. Senza la fiducia di base non può strutturarsi un qualsiasi rapporto d’amore. Ma senza il tradimento, il rapporto non può evolvere e crescere. Rimane sempre all’interno dell’infanzia dell’Eden. “Vivere o amare solo quando ci si può fidare, quando si è sicuri e accolti, quando non si può essere abbandonati o feriti, quando ciò che è stato espresso in parole è impegnativo in eterno, significa essere fuori dalle vie del male e quindi dalla vita reale” (Hillman). E il figlio non va mantenuto nell’Eden, ma consegnato alla vita.

Un padre che è tutto preoccupato di proteggere il figlio e non è disposto a dargli la “ferita”, a confrontarsi con lui (magari dosandola) anche con la propria potenza, non fa un buon servizio al figlio. Forse, questo padre dubita della propria potenza, non la conosce abbastanza o la sente distruttiva. Forse, non riesce ad allontanare il figlio da sé, perché lo vede come un prolungamento di sé, in funzione di sé, la medicina alle proprie frustrazioni e alle proprie sconfitte. Occorre un grande coraggio a coniugare insieme amore e tradimento, perché nel mentre dà la ferita al figlio, il padre la dà anche a se stesso. Mentre sorprende il figlio mostrandogli un volto diverso, il padre si fa sorprendere e provocare dalla durezza della vita e accetta, lui stesso, di cambiare.

Un padre  che si assume la responsabilità di apparire traditore, legittima il figlio ad esprimere la propria personale potenza, gli permette di entrare nel conflitto, lo giustifica nelle sue contrapposizioni e riconosce la “normalità” di quegli sforzi, con cui il figlio, in particolare adolescente, “cerca aggressivamente (e a volte violentemente) di definire con chiarezza i confini e i poteri del suo io, al di fuori dell’influenza paterna” (Yablosnky).

b.     La paternità e il rapporto di coppia

11.    A questo punto del nostro discorso, mi sembra fondamentale prendere in esame un'altra relazione all’interno della quale si definisce  la paternità, ed è la relazione di coppia. Quell’uomo particolare è padre nella misura e nella maniera in cui è partner nella coppia, in cui è marito della propria donna. Ho notato poco fa che la dimensione paterna è scaturita all’origine dal confronto con la maternità. Ma occorre altresì rilevare che essa si struttura nel tempo all’interno del dialogo tra l’uomo e la donna. Si tratta più della qualità che dell’esistenza della funzione. In questo senso la riflessione vale anche per la donna, la quale è madre nella misura e nella maniera in cui è compagna e moglie. L’accento è posto sul confronto tra le “identità di genere”, che si elaborano dentro la coppia.

Il lavoro di consulenza che svolgo da anni in un consultorio di Brescia con le coppie in crisi e con i singoli per problemi di coppia, mi permette di dire che se da un lato l’esercizio della paternità e della maternità riceve forza e impulso positivo da una buona relazione di coppia, dall’altro lato i figli possono divenire il tramite o il sostituto di una relazione di coppia inesistente o conflittuale, con una gestione impropria, falsata, strumentale della dimensione paterna o materna.

Quanto più il maschio ha difficoltà a stare insieme con la sua donna o di fronte a lei, tanto più può essere tentato di trasformare il figlio in un compagno, di cercarne la complicità, di assolutizzarne la presenza. La struttura adolescenziale, che può fargli temere il confronto dialettico, creativo, paritario con la propria partner, può spingerlo a esimersi da un’assunzione di responsabilità paterna verso il figlio.

D’altro canto, anche la donna, che si sente trascurata e vive problemi nell’intesa con il marito, può tendere a ripristinare la simbiosi originaria con il figlio, nello sforzo di perpetuare la propria indispensabilità materna e di riempire il vuoto esistenziale che la tormenta.

Da queste interazioni disturbate possono derivare identità di figli sottomessi o ribelli, a immagine e somiglianza dei loro genitori o, meglio, di quel figlio che i genitori sono stati.

12.    Compare qui una dinamica fondamentale, che sta alla base della paternità e dell’identità maschile, ed è quella che junghianamente potremmo descrivere come “rapporto con l’anima”. Essere nella condizione adulta coincide per Jung nel saper dialogare con la propria anima. Ora, “anima” per un maschio è sul piano esterno la propria donna, mentre sul piano interiore è il mondo ambivalente e contraddittorio delle passioni e dei sentimenti. Fare i conti con l’anima significa riconoscere non solo il lato luminoso dell’esistenza, quello che va secondo i progetti, i ragionamenti e le parole date, il volto dell’amore e dell’accoglienza, ma anche il lato oscuro, quello per cui ci troviamo ad essere sleali, traditori, colpevoli, il volto della dura necessità. Significa tenere insieme questa duplicità, assumersi la responsabilità della propria colpa, interrogare il tradimento. L’essere adulti va di pari passo con questa consapevolezza, dolorosa e coraggiosa.

Dicevamo sopra che un padre, il quale vuole educare il proprio figlio alla vita adulta, non può evitargli l’esperienza del tradimento. Lo deve in pratica mettere nella condizione di poter reggere l’ambivalenza della propria anima, di poter stare nella solitudine. E un padre è in grado di fare questo, solo se si è misurato con le contraddizioni dell’anima, che in genere appaiono nella relazione con l’altro sesso. Può sembrare un paradosso che il massimo di relazione corrisponda al massimo di capacità della solitudine. Ma è proprio così.

La possibilità di essere veramente se stessi sta nel saper stare soli, liberamente soli di fronte alla contraddizione della propria anima, là dove nessuno può sostituirsi a noi. Dice Jung: “Il mio compito è di aiutare i pazienti ad affrontare la vita. Non posso arrogarmi alcun giudizio sulle loro decisioni ultime, poiché so per esperienza che ogni coazione, si tratti di una lieve suggestione o insinuazione o di qualsiasi altro mezzo di persuasione, non fa altro, in ultima analisi, che ostacolare l’esperienza più alta e decisiva: il trovarsi soli con il proprio Sé, o qualsiasi altro nome si voglia dare all’oggettività dell’anima. Essi devono esser soli, non c’è scampo, per far l’esperienza di ciò che li sorregge quando non sono più in grado di sorreggersi da sé. Soltanto questa esperienza può fornir loro un fondamento indistruttibile”.

c. Iniziazione e vita sociale

13.    C’è un ultimo contesto entro il quale credo che sia necessario riflettere sul rischio della paternità. E un tale contesto è quello della vita sociale. A questo proposito, abbiamo già chiarito che l’eclissi del patriarcato ha quasi del tutto cancellato, almeno nell’occidente, quei miti e quei riti, che una volta presiedevano al passaggio di testimone tra le generazioni e che sostanziavano in maniera molto forte il dialogo tra adulti e giovani, tra genitori e adolescenti. Ora non esistono più forme significative di iniziazione alla vita sociale e pare che la collettività non impieghi molte energie in questa direzione, come se una funzione del genere venisse considerata ormai del tutto superflua.

Mi chiedo se questo sia giusto e se sia possibile pensare diversamente. Ci rendiamo  tutti conto della difficile condizione degli adolescenti i quali, prima di poter entrare nella vita sociale attiva con piena legittimazione, devono trascorrere un lungo periodo, chiamato “post-adolescenza”, in una sorta di parcheggio forzato, in cui vengono percepiti frustrazione, senso di inutilità, estraneità ai problemi del mondo, proprio quando avrebbero capacità ed energia a dismisura per intervenire in essi con creatività. Può la scuola essere un ambito dell’iniziazione ? e altri luoghi di aggregazione ? Con quali modalità ? Con quali riti ?

Se la cultura patriarcale è venuta meno, non credo sia venuta meno l’importanza vitale di alcune categorie sociali, che con il patriarcato erano in auge, ma che non si identificano con esso. Alludo alle categorie della continuità, della memoria, della storia collettiva, della responsabilità, che sono sempre servite a modulare l’istintualità immediata e che possono essere recuperate al nostro vivere sociale. Questo recupero è una funzione paterna, che a mio modo di vedere non dovrebbe mancare nell’ambito della comunità.  Siamo abituati, talora rassegnati ormai, a vivere nel privato, come se la società non riguardasse la nostra soggettività, ma solo alcune funzioni esterne e alcuni servizi. L’accento posto sui processi di iniziazione sociale ribadisce, invece, l’importanza del plurale per ogni nostra singolarità (Nancy).

Chissà, se guardiamo bene ad alcuni recenti fenomeni, contraddittori e sconvolgenti, se cerchiamo di decifrare alcuni segnali, forse ci muoviamo già, padri e figli, su questo nuovo cammino. 

       BIBLIOGRAFIA

Eschilo, Orestea, Mondadori, Milano 1990.

Freud, S., L’interpretazione dei sogni (1899), in “Opere”, vol. III, Boringhieri, Torino 1980.

Galimberti, U., Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999.

Hillman, J., Puer aeternus, Adelphi, Milano 1999.

Jonas, H., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990.

Jung, C. G., Psicologia e alchimia, Astrolabio, Roma 1950.

Kohut, H., Le due analisi del signor Z, Astrolabio, Roma 1989.

Mitscherlich, A., Verso una società senza padre, Feltrinelli, Milano 1977.

Nancy, J.-L., Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2000.

Risè, C., Essere uomini, Red-Edizioni, Como 2000.

Yablonsky, L., Padri e figli, Astrolabio, Roma 1988.

Zoja, L., Il gesto di Ettore, Bollati-Boringhieri, Torino 2000.

 

 

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